Elisabetta Longari

 

Molinari nello studio

 

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Che senso puó avere proporre oggi lo spazio intimo, fattivo e fattuale, dell’atelier nel luogo preposto all’esposizione, se non addirittura all’ostensione, dell’opera d’arte? Certamente gli ambienti di Villa Carlotta sono assai distanti dalla concezione del white cube, asettico contenitore in cui ormai da tempo l’ideologia espositiva identifica l’ottimale lettura di un’opera d’arte. Dunque il sentimento di profonda familiarità e vicinanza generato dall’accento privato delle stanze della villa trova continuità nell’offerta di un artista pronto a socchiudere la porta del suo laboratorio creativo. La scelta di Molinari però è portatrice di per sé di un’istanza importante, comporta una sorta di affermazione, se non proprio di rivendicazione, dello spazio operativo della pittura in un momento storico che ormai da tempo -sono già passati 100 anni da Ruota di bicicletta (1913), il primo ready made di Duchamp, nato nello studio parigino- sembra poter fare a meno dell’atelier, principalmente a causa della dismissione della manualità in favore di altre operazioni di natura più concettuale. Non si sottolineerà mai abbastanza il portato macroscopico di tale rottura, che ha impresso un’inversione di tendenza radicale al pensiero sull’arte e alle sue pratiche.

Si sta vivendo da tempo un’epoca connotata piuttosto da una delocazione, sinonimo di fuoriuscita dal guscio di conchiglia dell’atelier, e dunque si tende a marcare un distacco dalla mitologia del luogo originario dove avviene la genesi dei lavori. Una riflessione capitale a tale proposito è attuata da Daniel Buren in un giustamente famoso testo del 1971, dal titolo Funzione dello studio; con il risultato che l’artista di lì a pochi anni, nel 1978, lascerà definitivamente l’atelier decretandone la perfetta  l’inutilità. Senza sforzo si può dunque parlare del tempo presente come di un periodo “post atelier”, basta pensare a quanti artisti lavorano in situ (ad esempio gli operatore della Land art), o nella stanza della loro immaginazione (i concettuali) oppure sul desktop del loro computer (i Net artisti).

Il contesto sopra evidenziato rafforza l’impatto dell’osservatore con il ritrovamento di una specie di “rovina del tempio della pittura”, composto da un insieme di oggetti adibiti al rituale. Al sapore archeologico e feticistico si viene a combinare un coinvolgimento dello spettatore nella presunta ricostruzione di un processo, di un insieme di gesti del dipingere che danno luogo alla pittura.

L’artefatta messa in scena, l’allestimento, dunque coincide con una sorta di back stage della pittura che sembra permettere maggiore partecipazione alla genesi e alla coscienza di un processo, come avviene quando si visita lo studio londinese di Bacon, oggi interamente e meticolosamente ricostruito a Dublino con l’aiuto di un’equipe di archeologi.

Proprio la pratica del distacco dallo studio comporta un’attenzione speciale nei confronti di questo strano dispositivo spazio temporale che ha storicamente ricoperto diverse e opposte funzioni: dall’atelier come luogo mondano di incontri e confronti, salotto e locale per i ricevimenti, che  collega Courbet a Warhol passando per Picasso, alla turris eburnea in cui il genio romantico si rinchiude a creare in solitudine. Tanto è vero che mai come di questi tempi si riscontra un rinnovato interesse nei confronti dell’atelier, testimoniato anche dalla mostra che sta per inaugurare (4 marzo 2014) alla GNAM di Roma dal titolo Interni d’artista, in cui le opere vengono allestite come se fossero ancora nello studio degli artisti che le hanno realizzate, seguendo le indicazioni contenute nelle fotografie che testimoniano il clima del loro luogo d’origine.

Ma torniamo alla scelta espositiva di Molinari, la cui intenzionalità, e dunque il registro dei significati, si differenziano tanto da quelli messi in gioco da Lucas Samaras nel 1964, quando alla Green Gallery di New York City trasferiva l’intera sua stanza, letto compreso, quanto dall’inutile recente esibizione di Bob Wilson al Louvre di Parigi, Living room, in cui, oltre al letto king size, alla collezione dei pezzi d’arte e etnografici preferiti e agli stivali da texano, espone anche la propria vasca da bagno.

Non si tratta per Molinari di ribadire la continuità, tanto ostentata quanto fittizia, tra arte e vita o tra arte, vita e spettacolo, ma di dare le chiavi di un mondo fatto prima di tutto di utensili che sono stati e che verranno agiti dal pittore durante la sua pratica quotidiana. Nell’atto del dipingere, come in ogni altra pratica quotidiana, si annida l’insidia della ripetitività di cui ogni pittore deve diffidare, facendosi a volte violenza per compiere un gesto nuovo, meno istintivo, piuttosto che un altro, dettato dall’abitudine. Una danza tra abbandono e controllo. A volte la mano corre veloce seguendo il dettato del formato e della natura e della consistenza del colore, altre imprime ai materiali un sigillo volitivo, dando luogo a una combinazione tra “corsività” e violenza in cui i due momenti sono scindibili solo nominalmente.

Protagonisti dello studio di Molinari sono i grandi pennelli orientali allineati come soldati dalla lunga chioma, pronti a scattare nella battaglia. La natura gestuale della pittura di Angelo, che spesso lavora con le superfici dei supporti, tela o carta, disposte sul pavimento, richiama il concetto di “arena” coniato felicemente da Clement Greenberg per il dripping di Pollock. Nel gioco dei predecessori autorevoli entra Vedova, rintracciabile nell’energia del gesto e nella tendenza a invadere lo spazio, reale e tridimensionale, dell’ambiente che viene spesso da Molinari soddisfatta con la realizzazione di vere e proprie architetture pittoriche. Le sue costruzioni, dei monoliti a più facce per ospitare il tracciato pittorico, richiamano mutatis mutandis i Plurimi di Vedova, la cui ala della pittura ancora oggi batte e sposta l’aria della città lagunare dove Molinari ha ricevuto il primo imprinting artistico presso l’Istituto d’Arte.

I cavalletti, docili, si prestano a rendere servizio e a reggere i pannelli di legno, i fogli, le tele o quant’altro e svolgere il ruolo che è stato loro affidato, senza sabotare il risultato dell’installazione tentando di disarcionare gli elementi su di essi appoggiati, mentre i pennelli sembrano piuttosto rassomigliare alle scope dell’episodio dell’Apprendista stregone del film Fantasia di Walt Disney: sono oggetti, come pile elettriche, in cui si è accumulata l’energia del fare e che contengono, compressa, una propria autonoma capacità di muoversi e di ribellione.

L’installazione di Molinari è istruttiva oltre che suggestiva: si apprende che egli lavora con un colore per volta su diversi pezzi allo stesso tempo, sparsi strategicamente sulle pareti e sul pavimento, quasi a saturare completamente lo spazio.

Un indimenticabile referente sul fronte del reperto “caldo” e delle tracce lasciate dalle personali attività svolte nell’atelier è il lavoro di Dieter Roth, svolto con l’intento di privilegiare anch’egli il momento processuale della creazione, ma, diversamente da Molinari, nell’ambito di una ricerca costantemente tesa al superamento dei confini tradizionali dei linguaggi artistici. Angelo è invece completamente plongé (tuffato) nella pittura. Ai numerosi dispositivi elettrici ed elettronici, testimonianze di una tecnologia immediatamente obsoleta, che sono il dato più evidente dello spazio operativo dell’artista tedesco, si contrappongono eloquentemente tutti gli elementi posti in gioco da Molinari: ogni oggetto trasuda colore e rimanda ai gesti che lo stendono, il colore, gesti che, compresi in un’ampia casistica, possono essere aperti come archi lanciati tra le nuvole o avvolgenti come spirali e vortici.

La rete della pittura amplifica la potenza della propria stretta e la vastità della propria portata attraverso l’estensione di sé nel proprio habitat in cui il visitatore si trova direttamente implicato, inglobato.

In questo modo Molinari ha teso una trappola assai efficace, che coinvolge radicalmente altri sensi oltre alla vista; propone un’intensa stimolazione anche al tatto e all’olfatto, ed entra in scena anche il gusto: un sapore, orientale e occidentale, di antica e nuova pittura.

 

Elisabetta Longari

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