Divoramenti e flussi del colore
Intorno alla pittura di Angelo Molinari
Legata alla funzione dinamica del segno la ricerca di Angelo Molinari si colloca in quel vasto ambito della pittura gestuale che attraversa il ‘900 fino all’attualità, elevando a valori persistenti la velocità d’esecuzione e l’immediatezza del colore in tutti i suoi fluidi percorsi.
Questo tipo di visione ha origine negli anni Ottanta ma trova il suo momento di accertamento più consapevole intorno al 2000, punto di verifica del lavoro acquisito, già denso di umori segnici, gesti dirompenti e spinte trasversali in continua metamorfosi.
In questo sviluppo operativo Molinari cerca riflessi musicali nell’aria del colore attraverso strutture generatrici che funzionano come ancoraggio per l’occhio che naviga nella luce, nell’esplicita dinamica dei segni fendenti che tengono in equilibrio ogni evento cromatico.
Nel corso dell’ultimo decennio l’artista sperimenta ogni possibilità di fissare il flusso del colore servendosi di tutto quanto è necessario ad essere pittore senza mezzi termini, usando tela e carta come supporti espansivi dell’acrilico, pennelli e spatole come prolungamenti di ogni tensione fisica e mentale.
Ne scaturisce un corpo a corpo con le forme sciolte nella materia dove il gesto oscilla tra sè e sè, mai risolutivo e sempre aperto all’istinto del colore, al palpito leggero del suo apparire. L’immagine è affidata all’uso di grandi pennelli che Molinari ha portato con sè dai suoi viaggi ad Oriente, Cina e Giappone, strumenti difficili che non ammettono pentimenti. Il pittore se ne serve come potenziamento di ciò che ha sempre avuto in animo di realizzare, segni al massimo della loro pienezza, vaporosi e plastici in quanto permettono dilatazioni di luce che avvolgono lo spazio nella sensualità dei suoi misteriosi galleggiamenti.
Per ottenere una spazialità improvvisa e condensata in brevi masse sono necessarie molteplici stratificazioni, ripetute stesure di colore che mettono in luce spiragli sotto la pelle dell’immagine, scintille che s’intravvedono tra un segno e l’altro, gocce di colore inavvertite oppure consapevoli tracce di dripping.
La gestazione dell’opera allude ai modi di fissare il divenire del colore degli espressionisti astratti americani, si tratta di fermare il processo del fare in un punto decisivo e imprevedibile che segna l’attimo di rivelazione dell’immagine. Non, dunque, un’arte che esegue un’idea prestabilita ma una pittura interessata a scoprire ciò che suggerisce il prodursi stesso delle forme, con la tela posta in orizzontale per potervi girare intorno. Pittura d’azione, dunque, affrontata con velocità d’esecuzione adottata da diverse generazioni di pittori che hanno identificato il contenuto del dipingere nei molteplici modi di interrogare i fondamenti del colore.
A questa fisiologia del gesto impegnato negli infiniti processi della materia, Molinari aggiunge l’amore per l’energia essenziale del segno di matrice orientale assimilato dalla lezione di Hsiao Cin. Inoltre, la frequentazione di Giancarlo Bargoni lo spinge verso la ricerca dell’unità corporea dei sensi pittorici, fino a ipotizzare un’armonia superiore a tutte le inquietudini vissute dentro e oltre il perimetro dell’opera.
L’ansia del continuo divenire si avverte nella fuga dalle facili garanzie del visibile, nella coscienza di ciò che sta all’origine del mondo, del resto “l’inizio non sta mai dove si pensa”, così suggerisce il titolo di un’opera fissata nel dinamismo assoluto delle forme visibili e invisibili.
Questa cognizione della valenza interiore del fare pittura avviene sia quando i segni si offrono nella loro precisa articolazione sia quando evocano la sparizione, soprattutto nei momenti in cui l’immagine diventa più serrata, con il fondo ridotto al minimo, velo sottile appena intuibile.
L’andamento ermetico del colore si accentua nei dipinti del 2008-2009, la luce viene assorbita dalle grandi fasce luminose, con prevalenza di situazioni che tendono agli accordi calibrati bianco, alle vastità imponderabili del nero, alle tensioni in bilico sui gradi intermedi del grigio, alla vitalità del giallo o alle accensioni del rosso.
Nel caso dei “bianchi”, i grandi segni entrano in azione sul tracciato sottostante, lo coprono con andamenti rapidi che suggeriscono l’attimo del loro passaggio, essi sembrano tracce evanescenti, eppure hanno una forza espressiva che annulla ogni altra presenza. Sono corpi d’aria e di luce che rimbalzano con gesti tesi o ricurvi, trasversali e accentuati nei punti di possibile contatto, anche se non entrano mai in vera collisione.
Il vuoto per Molinari non è mai assenza di colore ma tangibile respiro di pittura, incontro e scontro tra temperature luminose che stabiliscono equilibri diversi, senza identificarsi in una direzione precisa.
Per captare il senso del vuoto basta osservare il colore soffiato che aleggia con leggerezza, colore che si scioglie e che diventa eco di se stesso, colore che trapela lattiginoso evocando bagliori indistinti, minimi trasalimenti che vanno dal bianco puro alle sue cangianze indescrivibili.
Di tutt’altro peso sono i tuffi nelle vibrazioni impercettibili del “nero” che trabocca d’oscurità, talvolta non è possibile distinguere i confini delle masse sovrapposte, accostate o divergenti, masse fisiche che coincidono con l’andamento delle pennellate, fluide come onde smisurate costellate di schegge di luce incandescente.
D’altro lato, osservando le esplosioni del “rosso” si prova un senso di turbolenza per ogni minima veemenza del gesto, in special modo quando porta il colore all’apice della sua danza tribale, come se fosse possibile cogliere la sua vitalità biologica con la coda dell’occhio.
Anche nel caso dei “gialli” è difficile trattenere i movimenti rapidi della luce, gli automatismi rivelano la metamorfosi della vita, durano un istante e poi svaniscono, mentre striature e tracce di colore in dispersione interferiscono con le masse più definite.
La pittura è fatta di vortici che si aprono, di solchi che oltrepassano lo spazio, di inquieti sommovimenti percettivi che vagano tra misura e dismisura, con sensazioni acre e pungenti, odori e suoni del caos vivente.
Non va sottovalutato l’uso poetico dei titoli che richiamano il vissuto ma sono anche premonizione di attimi ancora da scoprire, desideri di misurarsi con forme sconosciute in procinto di essere dipinte.
Ci sono titoli di evocazione letteraria per amplificare la visione cromatica, essi nascono quasi sempre dopo l’opera per indicare al lettore una via d’accesso alla dimensione astratta delle forme.
Se ne incontrano di tutti i generi, con ispirazione a prevalenza lirica, ma quelli su cui conviene riflettere appartengono alla visione della natura che per Molinari non è nostalgia naturalistica ma possibilità di attingere alla natura stessa del colore.
Per questo l’artista allude a squarci di cielo, allo svanire del sole all’improvviso, ai flussi della marea o al rumore di una cascata, al silenzio prima dell’alba o al cammino lungo l’argine del fiume, alle atmosfere dello sguardo che si dirama nel paesaggio infinito.
Queste seduzioni fanno parte della pittura intesa come atto vitale, vitalistico sentimento del colore che traspare in controluce, con effetti plastici e lucenti, vibrazioni che non finiscono mai di illuminare la soglia del colore, anche quello più sordo che va verso il marrone.
D’altro lato, l’incanto del viola evoca lo stato del crepuscolo così come la magia del verde rischiara le sensazioni del notturno, l’addentrarsi dello sguardo nell’ombra dell’inconscio dove si distinguono aloni di memorie, orizzonti lontani, intrecci inesplicabili tra passato e presente.
Nelle opere più recenti, l’azione del gesto spinge il colore a occupare tutta la superficie, come se l’impatto percettivo non permettesse più di stabilire un controllo dei segni, posti ad una distanza cosi’ ravvicinata da inglobare l’attenzione dentro i segni ingigantiti a vista d’occhio.
Questo universo di possibilità cromatiche si trasmette anche nel ritmo sincopato delle carte dove i segni si moltiplicano, si aggregano all’interno di flussi circoscritti, quindi si articolano con un vero e proprio alfabeto di macchie, con variazioni e ripetizioni differenti dello stesso incedere. Gli impeti di colore si gonfiano d’aria impalpabile, in altri casi traboccano di umori melanconici oppure esprimono un ritorno primordiale all’origine, fino a purificarsi nella luce del monocromo.
Bisognerebbe vedere le carte disseminate sulla parete, anche a più livelli di altezza, per cogliere i magnetismi tra queste pagine di pittura, fogli di un racconto colmo di varianti e accordi imprevedibili, dove razionalità ed emozione sono uniti nello stesso destino.
Molinari propende per le intermittenze dello spazio, inventa spiragli che penetrano in ciò che vive e può sparire, in tal senso esplora le ragioni del sogno senza essere mai surreale, in quanto l’enigma è l’epidermide stessa del colore. Alle prese con l’energia bioritmica del colore, l’artista non sa quali altri incantamenti la pittura può offrigli, così fantastica intorno alle meccaniche del gesto correndo il rischio di farsi travolgere.
Rovesciando le potenzialità della superficie, Molinari lavora sulla misura ambientale con volumi dipinti con la medesima tensione di tele e carte, con visioni analoghe che oscillano da un capo all’altro del colore. Si tratta di pittura a tre dimensioni in quanto il colore è dipinto direttamente sulla tela che fascia le strutture solide, monoliti irregolari giocati su tre o quattro lati di diversa altezza e larghezza. Pittura pensata in rapporto allo slancio verticale utilizzando con scioltezza grandi pennelli per segni magniloquenti, a tutto campo, in ascesa trasversale e sfuggente. La differenza più evidente è costituita dagli spigoli netti che tuttavia non frenano il flusso del colore, i perimetri lineari sono infatti punti di passaggio già previsti dall’artista che immagina dove cadranno i pieni e i vuoti delle stesure pittoriche.
Nell’istallazione progettata per la “Chiesa di San Antonio Abate di Vacciago” le volumetrie geometriche vengono disposte seguendo un ritmo alterno, stabilito in corrispondenza delle cappelle laterali, in modo che la lettura dello spazio si mantenga libera di scorrere con ariosità tutt’intorno.
Questi intervalli non sottraggono identità alla pittura, anzi ne rafforzano la percezione, infatti suggeriscono un percorso autonomo e -nello stesso tempo- una equilibrata relazione con il percorso frontale e laterale dell’architettura, con la totalità che accoglie le linee-forza del colore.
Con questo metodo le vibrazioni plastiche vengono spazializzate attraverso precise rispondenze tra superficie e ambiente, forma e spazio fisico, gesto e volumetria, traccia luminosa e penombra, unità di ogni singola opera e disseminazione degli elementi in gioco.
Ironicamente, Molinari allinea i totem pittorici in “pose di circostanza”, ridefinisce l’atmosfera sacrale della chiesa attraverso corpi cromatici che incalzano l’ambiente con un ritmo nuovo, basato su singoli elementi ma anche su gruppi di due o tre solidi in reciproca attrazione.
Il carattere di questo dialogo è estraneo al senso di contemplazione spirituale che l’identità originaria del luogo comporta, esso è piuttosto volontà di far gravitare il colore da ogni punto di vista in cui lo spettatore lo osserva e ne è coinvolto fisicamente, come qualcosa che si effonde ovunque lo sguardo si posi per far parte dell’istallazione.
“Divora ciò che vivi”, così recita emblematicamente uno dei titoli a cui Molinari affida il senso del suo attuale impegno, un invito a non tralasciare alcuna possibilità di conoscere i meccanismi mutevoli della pittura, sottoposti alla “dottrina interiore” del dipingere , necessaria disciplina per svelare l’azione divorante del colore, al di sopra di tutto.
Claudio Cerritelli